Dieci centesimi
Dieci centesimi
Giuseppe, per tutti Pipìn, era un ometto alto un metro e una
pigna, esile come un giunco e duro come i sassi del fiume, con due baffetti
sottili che tanto piacevano alle ragazze di quell’inizio del secolo.
Unico maschio, il più piccolo dopo cinque sorelle, lavorava col
padre e due zii i campi a mezzadria per conto di un proprietario avido e disonesto.
Non è che a Pipìn non piacesse il suo lavoro: ammirava la
forza mansueta dei buoi aggiogati all’aratro, aspirava l’odore antico e rassicurante
della terra appena smossa, promessa di pane e sicurezza, pregustava ogni giorno
la scodella di minestra calda e il cicaleccio gentile delle donne di casa che
lo attendevano la sera al ritorno dal lavoro.
Ma la terra è bassa, e chinarsi è fatica, e lui non
sopportava di doversi spaccare la schiena tutto il santo giorno per vedere poi
i frutti del suo lavoro ingoiati dall’ingordigia del proprietario dei terreni,
che lasciava a lui e alla sua famiglia solo le briciole: il contratto di
mezzadria era solo parole e ceralacca, la verità dei fatti era un’altra.
E così, la lontana Argentina, di cui tutti parlavano che era
stata ormai raggiunta da molti suoi coetanei del paese in cerca di fortuna,
diveniva sempre più vicina, trasformandosi lentamente sempre di più da sogno a
concreta possibilità.
Il suo cuore era una tempesta estiva quando, tenendo stretto
tra le mani callose il borsellino con i soldi messi da parte con grandi
sacrifici, salì sul calesse guidato dal padre per andare a Pavia per acquistare
il biglietto per il piroscafo che lo avrebbe portato a Buenos Aires.
Al ritorno, si sedette al tavolo della cucina e stette a
rimirare per ore quel foglio pieno di sigle, numeri, timbri e parole
sconosciute, ma in cui campeggiava in bella evidenza il suo nome: Rognoni
Giuseppe.
Finalmente, la sera, ripose di malavoglia quella reliquia in un
cassetto che si poteva chiudere con una chiave che si mise in tasca e andò a
dormire respingendo l’assalto delle sorelle che volevano vedere ancora
un’ultima volta quel magico pezzo di carta.
Nel sonno inquieto di quella notte, sognò le sterminate
praterie argentine, popolate da animali fantastici ed esseri umani dall’aspetto
mai visto prima.
Il giorno della partenza, mentre controllava per l’ultima
volta il suo scarno bagaglio e il biglietto di viaggio, Pipìn cercava di non
guardare il pianto sommesso delle sue sorelle, gli occhi duri di sua madre dai
quali scendeva una unica, solitaria lacrima che raccoglieva in sé tutto il
dolore di una vita, il volto pensoso e preoccupato di suo padre che si vedeva
sottrarre due braccia fidate per i campi: il proprietario sarebbe diventato
sicuramente ancora più esoso.
Ma tant’è, fece un’ultima carezza al cane che ricambiò con
una leccata gentile e si avviò, senza voltarsi, verso il suo destino
Mentre, in ginocchio sotto il sole spietato della pampa
argentina, imbullonava i pesanti binari di ferro alle traversine sotto l’occhio
annoiato e sonnacchioso dei sorveglianti, Pipìn si chiedeva dove diavolo
andassero quelle strade ferrate: erano in mezzo al nulla. Solo ogni tanto
qualche enorme mandria di vacche interrompeva un orizzonte che non lasciava intravvedere
niente, se non la propria ininterrotta linea. Da dove partivano queste vie,
dove arrivavano e, soprattutto, perché le stavano costruendo?
Ma Pipìn era un uomo concreto e smise presto di farsi troppe
domande. Il lavoro era duro, ma il cibo e la paga erano buoni: Mai aveva visto
così tante bistecche al suo paese e lì non c’era proprio la possibilità di
spendere soldi, se non per qualche partita a carte con gli altri operai e il
gruzzoletto che stava mettendo da parte diventava ogni giorno più consistente.
I suoi compagni di lavoro rispettavano e in un certo modo
ammiravano quell’ometto minuto, la forza e la tigna con cui a muso duro
spostava i pesanti binari di ferro e li imbullonava alle traversine di un legno
che sembrava cemento.
Dopo tre anni di quella vita a schiena bassa, decise che i
soldi risparmiati erano sufficienti, e la nostalgia di casa era diventata
insopportabile e non ammetteva più indugi. Andò dal capocantiere e gli comunicò
le sue intenzioni. L’uomo tentò di dissuaderlo, poi, rassegnato, gli pagò il
dovuto e gli diede la mano con una stretta da uomo. I compagni lo salutarono
tra mille scherzi e lucciconi agli occhi.
Il piroscafo per l’Italia sarebbe partito di lì a dieci
giorni, e a Buenos Aires c’era soltanto l’imbarazzo della scelta per passare il
tempo. Pipìn acquistò subito il biglietto per il viaggio, non si sa mai, trovò
un alloggio a buon mercato e cominciò a guardarsi intorno.
Per prima cosa acquistò un bel poncio di lana di lama da
regalare a suo padre per l’inverno, e ammennicoli vari per la madre e le
sorelle.
Ma i bar del porto avevano luci sfavillanti e il fruscio delle
carte e il rotolare dei dadi erano canti di sirene, e le donne che vi trovavi
avevano fianchi accoglienti e occhi di lupa, e i soldi finivano facili nelle
loro scollature.
I negozi del centro erano addobbati di ogni meraviglia e
Pipìn pregustava il momento in cui avrebbe visto la madre e le sorelle
sfoggiare al paese gli abiti e i gioielli che andava acquistando, sotto gli
occhi invidiosi dei suoi concittadini.
Così, quando fu il momento di imbarcarsi, del gruzzolo
racimolato con tanta fatica era rimasto ben poco, e Pipìn si apprestava a
ritornare a casa povero come quando era partito.
Quando arrivò, i suoi famigliari mascherarono la loro
delusione, e finsero di credere ai suoi racconti di paga da fame e furti subiti:
la madre ripose il poncio nell’armadio scuotendo la testa, il padre era tutto
sommato contento di potere di nuovo contare sul figlio per il lavoro e la vita
riprese come prima, sotto il sole duro della campagna.
Intanto l’Europa ribolliva e l’assassinio dell’erede al trono
dell’impero austroungarico Franceso Ferdinando e della moglie nel giugno del
1914 segnò l’inizio della catastrofe.
In Italia si stava col fiato sospeso aspettando il peggio che
puntualmente arrivò, con la nostra entrata in guerra.
Pipìn a causa della sua statura era stato riformato alla
visita di leva ma poi venne promulgata la legge del “Re Soldato” che abbassò
drasticamente la statura minima necessaria per svolgere il servizio militare e
permettere così a quel piccoletto di Vittorio Emanuele di essere il Capo delle
Forze Armate, rendendo Pipìn
inaspettatamente abile e arruolabile.
I ragazzi del paese e le loro madri passavano il tempo a
sbirciare dall’uscio di casa i movimenti del messo comunale che passava a
consegnare le cartoline precetto e quando lo si vedeva bussare a qualche porta
le donne si segnavano e gli uomini imprecavano sottovoce.
Quando inevitabilmente il messo si presentò a casa di Pipìn
con la temuta lettera in mano, lui tirò una bestemmia, maledicendo l’altezza di
Sua Altezza. La madre, nascondendo la sua disperazione, lo guardò con aria seria
di rimprovero e mormorò: “Oggi Dio bisogna pregarlo, non bestemmiarlo.” Ma
Pipìn era troppo spaventato e disperato per ascoltarla e si chiuse in camera
con la sua lettera e la sua paura.
In trincea la vita era un optional, la parola “futuro”
indicava solo la propria morte. Il fango sui volti rendeva i soldati tutti
uguali e i graduati dovevano pulire continuamente le proprie mostrine per
rendere riconoscibile la propria autorità.
Un giorno, mentre Pipìn stava contando gli scarafaggi che gli
brulicavano tra gli stivali, tentando di scrivere una lettera a casa con
l’aiuto di Bonelli, che aveva fatto un paio di anni di scuola più di lui,
arrivò il sergente Mascetti, con i gradi sulle spalle appena lucidati.
-
Bonelli
e Rognoni, questa notte dovete uscire a riparare una linea del telegrafo che è
stata danneggiata da una granata. Riceverete tra poco ulteriori istruzioni.
Detto questo, Mascetti fece per
andarsene, ma per un attimo si girò:
- Buona fortuna …
Pipìn tirò la bestemmia più dura che
conoscesse, ma Bonelli lo guardò con i suoi occhi buoni e spauriti: “Rognoni,
meglio che Dio lo preghiamo: questa notte dovremo avercelo amico!”
La notte i due erano pronti per la
missione. Bonelli s’era appuntato al bavero la foto della madre e non la smetteva
più di farsi il segno della croce. Pipìn tirò l’ultima boccata di sigaretta,
diede una pacca sulla spalla al compagno, si segnò un po’ preoccupato per le
possibili conseguenze della bestemmia detta prima ed entrambi strisciarono
fuori dalla trincea.
Di questi cecchini austriaci tutti
parlavano, ma nessuno ne aveva mai visto uno. In compenso tutti avevano dovuto
seppellire i corpi dei compagni colpiti da questi misteriosi angeli della
morte. Né a Pipìn né a Bonelli avrebbe comunque fatto piacere fare la loro
conoscenza.
Mentre Pipìn armeggiava, con le mani
che gli tremavano con la chiave inglese per avvitare i bulloni dei cavi
spezzati ripristinati, per un attimo l’attrezzo rimandò un bagliore arrivato da
chissà dove, forse da una stella, visto che la luna non c’era.
Il clangore secco del colpo sparato
dal cecchino riempì l’aria dell’eco cupo della morte.
Bonelli si appiattì al suolo, mentre
Pipìn soffocò un urlo portandosi la mano all’inguine, sentendo un dolore
lancinante.
- -Porca
puttana, mi hanno preso!
-
Zitto!
Non muoverti e non gridare o ci becchiamo un’altra fucilata.
Pipìn infilò lentamente la mano nella
tasca insanguinata e con un’espressione stupita ne estrasse un proiettile
ancora caldo, poi, cercando ancora, venne fuori una grossa moneta di rame da
dieci centesimi, insanguinata e con un foro sul lato destro.
Lui e Bonelli la guardarono
esterrefatti.
Il proiettile aveva centrato la
moneta, l’aveva attraversata e, frenato nella sua corsa omicida, si era fermato
sulla pelle, scalfendo solo un po' la carne.
I due ragazzi si guardarono increduli
e subito dopo scoppiarono a ridere e a piangere contemporaneamente senza
riuscire a fermarsi.
A Pipìn vennero in mente le bestemmie
dette e si sciolse in un pianto dirotto: Dio, nella sua infinita bontà, l’aveva
perdonato.
Quando da bambino mio nonno Pipìn mi raccontava questa storia, con la sua voce esile e il suo dialetto che ti cullava come la risacca del mare, arruffandomi ogni tanto i capelli, lo stavo ad ascoltare a bocca aperta e rimiravo come un talismano venuto da chissà quale lontana galassia quella moneta accartocciata e bucata, pensando che in definitiva il buon Dio ha a cuore le sorti degli ometti piccoli e tignosi ..., come mio nonno e me.
Per favore, quando scrivi un commento, se puoi lascia il tuo nome o anche un nickname. Grazie
Una storia tenera raccontata con tenerezza da un tignoso!
RispondiEliminaPer tignoso io intendevo caparbio!
RispondiEliminaIl portamonete in pelle marrone bucato dal proiettile il nonno Pipin lo diede a me circa 60 anni fa
RispondiEliminaStoria straordinaria e se il protagonista non fosse stato tuo nonno - che ti rassomiglia molto - parrebbe un racconto inventato.
RispondiEliminaSono appassionanti queste storie che nonni e padri raccontano. Tramandarle è importante, perché oltre alla grande Storia, all'interno, ci sono tutte le storie di uomini e donne che hanno vissuto quei periodo. L'hai descritto con tutto l'amore che un nipote a suo volta amato può dare.
RispondiEliminaGrazie, chiunque tu sia. Se potete indicate il vostro nome, anche un nick name. Grazie.
EliminaStoria vera straordinaria narrata con affetto e ammirazione
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