Itaca 1943
Questa è la storia vera di mio suocero Fernando, che partì in guerra come carabiniere.
ITACA 1943
“Cambiano cielo, non animo, coloro che corrono
al di là del mare”
(Orazio)
Negli anni prima della guerra, nella campagna umbra la vita
non era un affare semplice.
I miei genitori
coltivavano i campi della Curia, assicurandosi così il diritto ad abitare in
uno dei decrepiti casolari che venivano dati in affitto ai contadini.
Così, quando mio padre cadde
dall’albero che stava potando e rimase a terra come un sacco ormai vuoto di
sogni e speranze, mia madre capì subito che avrebbe dovuto trovarsi un altro
marito: il fattore non avrebbe permesso di ospitare una donna sola con figli piccoli,
senza due braccia forti di uomo che potessero lavorare i campi.
Ero troppo piccolo per aiutare mia
madre, ero troppo grande per accettare quella situazione. Attraverso mille
peripezie riuscii ad arruolarmi nell’Arma dei Carabinieri e partii.
Mia madre mi guardò incamminarmi
sulla strada polverosa che dalla nostra casa portava al paese e alla ferrovia,
con gli occhi asciutti e brandendo il rastrello come una lancia, e non disse
niente.
Il mio patrigno rimase nell’orto a
legare i pomodori tirando su col naso, non so se per la commozione o per il
raffreddore.
Noi umbri non abbiamo dimestichezza
col mare: non tocca la nostra terra e quando lo vediamo ne diffidiamo, come di
un forestiero arrivato in paese. Per noi l’acqua è quella dolce dei fiumi e dei
torrenti dove le nostre donne lavano i panni, e la usiamo per bere, lavarci,
fare qualche nuotata, bagnare campi e orti e pescarci qualche trota, anche se siamo
più cacciatori che pescatori.
Così, quando venni assegnato alla
Legione Territoriale di Napoli, con compiti di presidio e pattuglia del porto e
di scorta alle navi che trasportavano armi, lo considerai una specie di
contrappasso dantesco, un’ordalia alla quale il buon Dio mi sottoponeva per
farmi crescere da ragazzo a uomo.
La vita nel porto di Napoli scorreva
piuttosto tranquilla: si bighellonava alla ricerca di qualcosa di buono da
mangiare e di qualche passatempo per riempire l’uggia delle giornate sempre
uguali.
La prima scorta che feci fu per una nave
che portava armi a Biserta, in Tunisia: non chiedetemi perché.
A parte il mal di mare, qualche caso
di scabbia, la noia e il cibo pessimo, il lavoro non era male: cominciavo a
prendere confidenza con quel mare di cui avevo sempre diffidato, e guardavo le
onde con rispetto, e loro guardavano con rispetto me.
Ci si abitua a tutto, e pulire il
ponte dagli effetti del mal di mare mio e dei miei commilitoni non mi creava
più di tanto disagio: tutto stava andando per il meglio…
Il primo siluro lanciato dal
sottomarino inglese arrivò di notte, silenzioso e improvviso, come la faina che
irrompe nel tuo pollaio seminando la morte, o il ladro che ti ruba le vacche
nella stalla.
Il colpo e la colonna di fuoco furono
quelli che annunciano un improvviso temporale estivo in campagna. A seguire,
arrivò il secondo siluro a dare il colpo di grazia.
La nostra nave si aprì in due e,
senza opporre resistenza, si abbandonò alle onde nere del mare, ridiventate
ostili.
Mi guardai intorno, stravolto dal
terrore e spinto dall’istinto di sopravvivenza: mi resi conto di non avere fortunatamente
ferite. Vidi in mare delle scialuppe stracariche di gente , di urla e di
gemiti. Per salire su una di esse minacciai e fui a mia volta minacciato, ma
alla fine mi trovai accovacciato in un ammasso tremante di corpi, di stracci e
di sangue: pensai che la mia fine fosse stata solo ritardata di qualche minuto,
e aspettai, tranquillo, la morte. La attesi per quattordici ore, appollaiato su
quel cumulo di lamenti, bestemmie e preghiere, dondolando e beccheggiando su
quella bagnarola piena di acqua, con la mano tremante fissa sul calcio della
pistola (non si sa mai), finché, incredibilmente, ci vennero a salvare.
La mia ordalia si era compiuta.
Giungemmo, dopo varie vicissitudini,
a Napoli. L’8 settembre piombò come una meteora nella nostra vita: finalmente si
poteva tornare a casa.
In realtà la cosa non era così
semplice: i nostri superiori ci impedivano di partire.
Nel campo dove eravamo concentrati eravamo
dotati di gavette, ma in generale non sapevamo che farcene: il cibo
praticamente non c’era e quindi non c’era nulla con cui riempirle. Così, una
mattina, ne raccolsi alcune dai compagni e annunciai giulivo: “Vo’ a piglià un
po’ d’acqua!”. Con passo tranquillo mi avvicinai all’uscita del campo: la
guardia non mi vide o, mi piace pensarlo oggi, fece finta di non vedermi: in un
attimo fui fuori.
Napoli-casa a piedi è una passeggiata
di salute.
La strada ti guarda astiosa e non ti indica
mai la sua fine: ti volge le spalle mostrandoti solo il suo dorso polveroso, la
fame ti azzanna lo stomaco, la paura di essere ripreso ti morde il cuore. La
puzza dei tuoi piedi ti segue
dappertutto, i vestiti laceri e sudati sono un tutt’uno con la tua pelle,
sfregando il tuo corpo magro e le tue ossa stanche. Impari a rubare non visto le carrube agli asini che pascolano
pigri lungo la strada, scruti ogni albero per vedere se per caso ci sia ancora
qualche frutto ammaccato dimenticato, ogni fontanella d’acqua è una pentola di
monete d’oro posta all’inizio di un arcobaleno per dissetarti, rinfrescarti e
sentirti un po’ più essere umano.
Attraversi luoghi sconosciuti,
ascolti dialetti incomprensibili, respiri aria che non è la tua e che ti tappa
il naso.
Ma, finalmente, a un bel momento il
paesaggio cambia: cominci a riconoscere i luoghi, le colline, i campi, le
piante, i colori e gli odori, le case, le voci e gli accenti: stai arrivando a
casa.
Giunto in paese, mi guardai intorno:
praticamente nulla era cambiato: la vita continuava tutto sommato pigra come
l’avevo lasciata. Entrai in chiesa e io, poco credente, mi feci il segno della
croce con una leggera genuflessione: avevo un debito con Dio. Uscendo, incontrai
il fattore che ci voleva cacciare: i nostri sguardi si incrociarono, tentò un
cenno di saluto subito rientrato: “Con te si faranno i conti a tempo debito” –
pensai. La carità e il perdono cristiani sono questioni difficili da gestire.
Imboccai la strada polverosa cha dal
paese portava alla mia casa.
Mia madre era in fondo alla strada,
con gli occhi asciutti e brandendo il rastrello come una lancia. Il mio
patrigno era nell’orto a controllare i fagioli, tirando su col naso, non so se per il
raffreddore o per la commozione.
Improvvisamente i miei piedi non
puzzavano più, gli stracci laceri e sudati erano spariti. Ora indossavo la
divisa da carabiniere di ordinanza, quella con la quale avevo fatto il
giuramento e la foto ricordo a Roma nel ‘41, pulita e stirata: le bande rosse
dei pantaloni erano papaveri dei miei campi di grano, i bottoni d’ottone della
giacca brillavano come oro al sole conosciuto e amico della mia terra.
Mi diedi un contegno, nonostante la
stanchezza e la fame mi ravviai i capelli, mi riassettai gli abiti e drizzai la schiena, avanzando
sulla strada con un incedere per quanto potevo solenne: volevo essere degno
della divisa che portavo.
Mia madre strizzò per un attimo gli
occhi, lasciò cadere la sua arma e finalmente schiuse le labbra, abbozzando un
sorriso sdentato.
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Raccontata da te sembra poesia, raccontata da Nando era ancora paura e rabbia. Lui la guerra vera l'ha fatta contro le ingiustizie non contro gli inglesi. Bello ricordare e soprattutto far che gli altri non dimentichino
RispondiEliminaComplimenti....avrei continuato a leggere ancora e ancora....bravo Roberto 😍
RispondiEliminaCaro Roberto, mi sembra di vedere le cose che scrivi, il racconto è vivo e partecipato, molto bello.
RispondiEliminaCommovente e toccante, sembra di vivere insieme a lui quei momenti
RispondiEliminaLe guerre sono fatte da persone che si uccidono senza conoscersi, per gli interessi di persone che si conoscono ma non si uccidono (P. Neruda)
RispondiEliminaSei riuscito a trasformare una dura realtà in un poetico e commovente racconto
RispondiEliminaBravissimo Roberto, grazie
RispondiEliminaFine, umile, nobilissima persona. Ne conservo ancora un piacevole ricordo. E onore a te Roberto che hai pensato di celebrarlo così..
RispondiEliminaChiedo scusa... Non ho lasciato il mio nome: Antonella
RispondiEliminaGrande e commovente narrazione Roberto. Mi hai fatto immaginare, come fosse vero, tuo suocero che lacero e affamato ma fiero nella sua divisa camminare incontro a sua madre. Grazie per aver condiviso questo ricordo
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