Antelao

 








Antelao  

Antelao!

Quando mio padre pronunciò questa parola, con sguardo ardente volto verso l’infinito, un brivido corse lungo il metro e dieci del mio corpo mingherlino di bambino.

Nel piccolo paese dove abitavamo, per poter avere una vita sociale soddisfacente e il rispetto e la stima della gente dovevi essere obbligatoriamente iscritto al CAI.

Così mio padre, uomo di pianura cresciuto tra le sterminate risaie della Lomellina, in quanto direttore della locale banca, dovette fare la tessera a tutta la famiglia per migliorare i rapporti con i clienti e gli imprenditori della zona.

Tuttavia, ben presto i miei genitori si entusiasmarono per le gite in montagna e gli armadi di casa si popolarono rapidamente di camice a scacchi di flanella, pantaloni di fustagno, giacche a vento e scarponi pesanti.

La montanara uè” era tra le hit musicali della famiglia e i romanzi di Carlo Sgorlon venivano divorati e mandati a memoria. Un poster di Lino Lacedelli e Achille Compagnoni troneggiava in salotto.

Ogni domenica si partiva verso monti sempre più innevati e inaccessibili, e io dovevo sottostare a questo supplizio: alzarsi la mattina a orari impossibili l’unico giorno in cui avrei potuto dormire, affrontare lunghi viaggi in auto o pullman in compagnia del mio perenne mal d’auto, inerpicarsi per sentieri scoscesi verso mete delle quali non m’importava nulla, incitato dagli adulti che mi rimproveravano per la mia pigrizia e indolenza, quando il mio unico desiderio era quello di essere con i miei amici all’oratorio a giocare a figurine “a muro” o “a lungo”, o a scambiarcele in estenuanti trattative secondo l’antico e sacro rito del “celo/manca”.

Ma quando sentii che saremmo andati al Rifugio Antelao, una luce mi si accese nell’animo.

Piccolissimo, i miei genitori erano soliti d’estate spedirmi per un mese, in compagnia di mia sorella maggiore, compagna di sventure, in una sorta di campo di rieducazione sovietico che loro chiamavano “colonia”: la gloriosa colonia “Mario Vazzoler” di Pieve di Cadore.

Lì trascorrevo il mio mese di confino tra sospiri e tirate su di naso, contando i giorni che mancavano all’espiazione della pena.

Ma c’era un giorno, di quel mese, che mi risvegliava dal mio triste torpore e mi ridava, per qualche ora, la gioia di vivere: la gita al Rifugio Antelao.

La cosa strana è che io al Rifugio Antelao non ci ero mai andato: l’escursione, in quanto molto impegnativa, era riservata ai ragazzi più grandi e io, essendo il più piccolo della colonia, ne ero sempre stato sistematicamente escluso.

Ma vedere i ragazzi più grandi partire prima dell’alba in tenuta da campagna e zaino affardellato, con negli occhi il fuoco dell’avventura, risvegliava in noi piccoli un’eccitazione sconosciuta, un ardore nuovo, una preoccupazione quasi paterna: li guardavamo come le madri guardano i propri figli partire per il fronte.

Passavamo tutta la giornata nell’attesa del loro ritorno, e quando arrivavano la sera, distrutti dalla fatica, come Alpini dalla Russia, come Crociati da Gerusalemme, ascoltavamo i loro racconti di burroni e orridi evitati per un pelo, di pareti di roccia invalicabili, di animali sconosciuti e fantastici che si arrampicavano tra le rocce e vagavano per i boschi, dello Yeti avvistato solo per un attimo e del suo terribile ululato che aveva gelato loro il sangue.

E ora, accidenti, finalmente toccava a me: sarei andato sull’Antelao, avrei scalato quelle pareti ostili, avrei visto quegli animali fantastici, avrei difeso eroicamente mia sorella dallo Yeti, affrontandolo senza paura.

La notte prima dell’escursione non chiusi occhio, studiando le migliori tattiche per affrontare tutti i perigli e i cimenti che mi attendevano, e la mattina buttai giù dal letto i miei genitori a un’ora ancora più impossibile dell’impossibile.

Durante il viaggio in pullman non soffrii neppure il mal d’auto, canzonando quella femminuccia di mia sorella, bianca come un cencio per la nausea. Arrivati al punto base, partimmo, e i grandi avevano il loro daffare a contenere il mio impaziente scalpitare.

Ma presto il mio entusiasmo cominciò a scemare: non un orso bruno, non un leopardo delle nevi, nemmeno uno straccio di marmotta o di gheppio. Dello Yeti, poi, neanche a parlarne: tendevo l’orecchio nella speranza di sentirne lo spaventoso verso: niente.

Mi sarei accontentato anche solo di poter riverire la Samblana, la principessa del bianco inverno che abita questi monti avvolta nel suo manto d’argento, luce e albume d’uovo; avrei voluto chiederle di intercedere presso i miei genitori affinché non mi mandassero più alla colonia Vazzoler, ma anche di lei nessuna traccia. Solo il sentiero pietroso che saliva verso il nulla, la fatica, la fame, la sete, il caldo del sole che ti picchiava in testa, il desiderio di fermarsi, di sedersi a riposare all’ombra, di bere un sorso d’acqua fresca dalla borraccia. Ma non si poteva: i grandi scuotevano la testa con finta indulgenza e vera petulanza: “Se in montagna ti siedi, poi non ti rialzi più”. Ma chi voleva rialzarsi?

Il monte Antelao si stagliava imponente, maestoso e bellissimo davanti a noi, ma non me ne importava nulla. L’unica cosa che mi importava era il panino col salame che mi attendeva, ora ahimè inaccessibile, ben nascosto nello zaino di papà.

Per un amico di Milano di mio padre che, uomo di città, non era in grado di continuare la salita, venne approntata, non so come, un’improvvisata carriola sulla quale salì esausto e felice, trainato da un paio di aitanti giovanotti del posto. Pensai: “Perché a me, che sono un bambino, niente?”.

Quando finalmente arrivammo, ignorando totalmente l’incredibile paesaggio che ci si stagliava davanti, mi avventai, con mia sorella, sui panini e sulla magica lattina di aranciata, aspettando impaziente il ritorno e il momento in cui avrei potuto rivedere le mie amate figurine.

E il momento del ritorno arrivò.

Io e mia sorella, impazienti di arrivare al pullman e agevolati dalla strada in discesa, ci eravamo un po’ staccati dal resto del gruppo e procedevamo spediti.

La strada si snodava in una serie di tornanti che spezzavano il bosco, e così a mia sorella venne un’idea geniale: se invece di seguire i tornanti avessimo tagliato per il bosco, avremmo ridotto di gran lunga il cammino: a ogni taglio avremmo ritrovato il sentiero più in basso.

Elettrizzati da questa splendida idea, cominciammo a scendere per il bosco. Le prime due volte trovammo facilmente il sentiero sotto di noi, ma alla terza, della strada nessuna traccia: evidentemente i tornanti erano finiti e il sentiero aveva tirato dritto abbandonandoci al nostro destino.

Quando ci rendemmo conto di avere perso la strada la paura ci prese. Io, approfittando della mia condizione di fratello più piccolo, scoppiai in un pianto disperato, mentre mia sorella, essendo la maggiore, non poteva piangere e si limitava a una scafa tremante e a farfugliare vaghe e poco convinte parole di incoraggiamento.

Con questo stato d’animo cominciammo a risalire il bosco nella speranza di ritrovare il sentiero lasciato.

Il sole cominciava a calare e i pini rossi allungavano le loro ombre minacciose verso di noi. Vuoi vedere che gli orsi bruni, i leopardi delle nevi, le marmotte e i gheppi si stavano riunendo per organizzare un banchetto con le nostre spoglie, mentre lo Yeti stava aspettando solo il momento giusto per fare di noi un sol boccone?

E peggio ancora, sicuramente il Mazzariòl, il perfido folletto maligno e dispettoso che abita i boschi, aveva raddrizzato il sentiero e ne aveva deviato il percorso e certamente stava ancora tramando per la nostra rovina.

Scalavamo a fatica quel ripido muro di rovi, tra un pianto e una soffiata di naso. Un Boletus Satana, placido e grassoccio, ci osservava scuotendo il testone poroso.

A un tratto, quando ormai avevamo perso quasi ogni speranza di rivedere i nostri genitori e le mie figurine, ci apparve, sopra di noi, una striscia bianca, tremula nell’imbrunire: il sentiero. In due balzi fummo sulla strada, ci abbracciammo piangendo e ridendo, io dissi a mia sorella che ero sempre stato sicuro che avremmo ritrovato la strada e che mai, neppure per un attimo, avevo avuto paura. Lei mi rispose che anche lei non si era spaventata, anzi …

Il sentiero dritto davanti a noi, senza il tornante che ci aspettavamo, ci fissava ghignante e soddisfatto. Sentimmo chiaramente la risatina divertita del Mazzariòl, che già stava preparando il prossimo scherzo ai danni di chissà chi.

Mia sorella mi diede una carezza sui capelli, rasserenati e felici riprendemmo la nostra strada, mano nella mano, ringraziando il buon Dio per essere finalmente usciti a riveder le stelle.





Per favore, quando scrivi un commento, se puoi lascia il tuo nome o anche un nickname. Grazie

Visitate e seguite la mia pagina Flickr "Roberto Rognoni", https://www.flickr.com/photos/roberto57/ . Ogni giorno foto, frasi e citazioni da film di tutti i tempi 😊


 


Commenti

  1. Mi riconosco in quel bambino, quando andavo a San Vito di Cadore in colonia dalle suore canossiane. Che incubo, altro che stare bene in montagna. Divertente e simpatico il racconto. Che nostalgia l' Antelao!

    RispondiElimina
  2. Bel racconto Roberto! Ricordo anch'io con orrore la nausea immancabile dei viaggi per salire in montagna

    RispondiElimina

Posta un commento

I più visti

No alla Legge Finanziaria!

Itaca 1943

Presentazione

Altrove

La scolaresca in gita