Ossibuchi di dindio

 



Ossibuchi di dindio

 

Mia zia Rina in realtà non era mia zia. Era una gentile signora che abitava vicino a noi e che aveva preso sotto la sua protezione la nostra famiglia arrivata dalla Lombardia e ancora non avvezza ai costumi veneti, e così a noi bambini venne naturale chiamarla zia.

Mia zia Rina in realtà non si chiamava neanche Rina. Il suo vero nome era “Erina” ma tutti la chiamavano “Rina”. Lei aveva accettato di buon grado di farsi chiamare così, tuttavia teneva moltissimo al suo vero nome tanto che quando dovevo sostituirle sul campanello l’etichetta sbiadita dal tempo e dalla pioggia si raccomandava che ci fossero tutti e due i nomi, fiera di vedere quell’altisonante “Erina Rina Rui”.

Una cosa comunque è certa: mia zia Rina era la donna più buona del mondo, di quella bontà antica e contadina, seria, riservata e schiva. Quella bontà che riconosce ciò che c’è di buono nel mondo, e crea empatia con esso.

Faceva l’operaia in una fabbrica che produceva, quasi unica al mondo, anelli per fissare le setole ai pennelli e per me bambino questa attività aveva qualcosa di magico e arcano, e quando lei mi raccontava le fasi della lavorazione la stavo ad ascoltare con la bocca aperta, come fosse la più avvincente delle fiabe.

Viveva sola in un piccolo tinello affacciato sul fiume proprio all’altezza di una cascata, riscaldato da una stufa a legna che adoperava anche per cucinare, le pareti dipinte in grigio chiaro a puntini azzurri così “non si vede la muffa”. Per raggiungere la camera da letto doveva fare due piani di scale e passare davanti all’uscio di un’altra abitazione. Poteva anche usufruire di un piccolo bagno gelido e di un ripostiglio dove stipava derrate alimentari sufficienti per fare fronte a un a un paio di guerre mondiali e svariate carestie. Per i bisogni spicci c’era una turca nel cortile.

Grazie alla sua gentilezza e al suo doppio lavoro (per arrotondare la domenica faceva la cameriera in un vicino ristorante), riceveva spesso piccoli doni che ammassava nel ripostiglio. In particolare ricordo le bottiglie di spumante che, custodite per anni in quanto lei non beveva, tirava fuori nelle grandi occasioni e ti offriva questo vino ormai marrone per l’ossidazione e imbevibile dicendoti fiera: “Senti che bòn, l’è perfin marsalà!”.

Della sua condizione di single mi parlò solo una volta con disagio e imbarazzo, raccontandomi con sguardo evasivo di un fidanzato morto in guerra a mai più rimpiazzato, oggetto di una devozione discreta e assoluta. Dopo quella volta non ne parlammo più.

Guardava la televisione con lo spirito e l’animo di una bambina, commentando e giudicando le notizie sulla base di un suo senso della giustizia elementare e incontrovertibile. Ricorderò sempre quel giorno che ascoltò la notizia di una donna arrestata perché picchiava e mordeva i bambini che avrebbe dovuto accudire.

Per un attimo la sua bontà scomparve e sibilò minacciosa:” Se so mi de una che mastegha tosatei…”.

A proposito di televisione, aveva un apparecchio in bianco e nero di una sconosciuta marca rumena, acquistato con fatica secoli addietro che si guastava sempre. Così un giorno decisi di regalarle una tv a colori nuova di zecca: non le dissi niente e feci le cose in grande. Mi presentai un giorno a casa sua accompagnato da un tecnico che portava la televisione su un carrello. Il tecnico aveva una tuta azzurra pulitissima e decorata da bellissimi loghi colorati. L’effetto trasmetteva una eccellenza tecnologica mai vista prima. Mia zia ci guardò interdetta, poi la sua espressione divenne quella di un bambino che scopre i doni sotto l’albero di Natale. Mentre il tecnico procedeva all’installazione dell’apparecchio lei si mise in un angolo e cominciò a balbettare tutta una serie di “ma dai, non dovevi, tu sei matto”, mentre i suoi occhi tradivano un’incontenibile felicità. Penso con orgoglio e senza falsa modestia che quello sia stato uno dei giorni più belli della sua vita.

Da piccoli, una tradizione consolidata per me e mia sorella era andare la sera dell’Epifania a vedere il Panevin sull’argine del fiume e dormire dalla zia. Lei cominciava i preparativi un mese prima per farci trovare la casa e la camera da letto in ordine e soprattutto per preparare e marinare le tre braciole di vitello che avrebbe cucinato sulla griglia comune preparata sull’argine, vicino al falò.

La consegna era che mai le nostre braciole avrebbero dovuto confondersi con le bistecche altrui: il nobile vitello non doveva mischiarsi con il maiale del popolino e soprattutto bisognava vigilare che qualche malintenzionato non ce le sottraesse. Armata di un lungo forchettone la Rina si piazzava davanti alla griglia, vegliando le bistecche come una guardia svizzera il Papa.

Guardava la direzione del fumo del falò traendone auspici per il nuovo anno, esultando se essi erano favorevoli, mentre, se non lo erano, sentenziava che tanto era solo una credenza da contadini ignoranti.

Finita la festa si andava a dormire. La camera era gelida e le lenzuola così fredde che sembravano bagnate, ma la zia ci dotava di uno scaldino in ottone riempito di acqua bollente e avvolto in un panno di lana. La tradizione voleva che a un certo punto della notte il panno si spostasse e i nostri piedi finissero sulla superficie metallica rovente, con conseguenti strilli e pianti. In ogni caso, a un certo punto, cullati dal gorgoglio della cascata ci addormentavamo, sognando la Befana e i suoi regali.

In prossimità del Natale la zia veniva a casa nostra e preparava l’albero, un abete vero, e soprattutto il presepe. In questo era imbattibile. I suoi presepi erano incredibili opere di ingegneria civile che sfidavano la legge di gravità e ogni altra legge della fisica. Montagne innevate si inerpicavano sul muro del salotto ospitando pastorelli e pecorelle mentre specchi a mo’ di laghetti accoglievano pesci e anatre. Qualche volta vinceva il premio della parrocchia per il presepe più bello e allora bisognava vedere la sua faccia.

Per Carnevale veniva a farci i crostoli e io mi divertivo a rubarle la pasta ancora cruda ridendo ai suoi bonari rimproveri falsamente risentiti.

Lei, che non aveva studiato, era molto preoccupata e sentiva forte la responsabilità della nostra educazione e così cercava di esprimersi in un italiano accettabile storpiando spesso in modo buffo le parole pensando così di italianizzarle. Così nasceva l’acciaio “inoccidabile” e l”aradio”  che trasmetteva i numeri del lotto. Numeri che io dovevo diligentemente ricopiare per vedere se avesse vinto qualcosa quando li giocava ma anche per sperare che non fossero usciti quando si era dimenticata di giocarli.

Quando, da grande, andavo a Roma per lavoro, dovevo sempre comprarle un biglietto della lotteria perché “vincono sempre a Roma e qua da noi mai!”.

Il giorno della mia laurea venne a Venezia ad assistere alla discussione della tesi. Occupò un posto un po’ distante, intimidita dalla solennità dell’ateneo, e stette ad ascoltare la mia esposizione con i lucciconi.

Mi regalò una penna stilografica, simbolo di scienza e di cultura e strumento indispensabile per affrontare la scalata della piramide sociale che mi attendeva. Donna intelligente che non aveva potuto studiare, non invidiava ma ammirava chi ne aveva avuto la possibilità e l’aveva sfruttata.

Anche da adulto andavo spesso a mangiare da lei. Era bello entrare in quella piccola casa pulita e sentire il profumo del cibo sui fornelli. Lei era sempre in ordine, di un’eleganza modesta e sobria.

Durante il pranzo mi divertivo a scandalizzarla, lei democristiana per habitat, con le mie idee un po’ comuniste che le apparivano sovversive e che accettava solo per l’amore che provava per me.

Un giorno mi annunciò eccitata: “Oggi ti ho preparato una specialità: gli ossibuchi di dindio!”

La guardai perplesso e cercai di nascondere la mia diffidenza. Capivo la sua soddisfazione per avere escogitato un piatto a effetto con ingredienti a buon mercato e simulai entusiasmo. Gli ossibuchi accompagnati dal vino scadente che comprava da un contadino suo conoscente erano tutt’altro che buoni, insipidi e stopposi ma, naturalmente, ne elogiai la bontà.

Ahimè, da quel giorno gli ossibuchi di dindio divennero un menù fisso e io dovetti sempre fingere di adorarli.

Con gli anni la cara zia invecchiò, finché venne il giorno che le sue nipoti la ricoverarono in una casa di riposo. Lei accettò la cosa di buon grado, nascondendo dietro al suo sorriso buono la sua tristezza.

Un giorno venne la commissione medica per valutare se sussistessero i requisiti per assegnarle la pensione di invalidità.

La Rina guardava inorridita e visibilmente risentita e offesa il medico che le chiedeva che giorno fosse oggi, come si chiamava sua mamma e chi era il Papa, mentre io da dietro le facevo gli occhiacci affinché simulasse almeno un po’ di demenza senile, ma non ci fu verso.

Quando un giorno cadde e si ruppe un femore i medici le chiesero se volesse essere operata, facendole presente che l’esito della operazione non era per nulla scontato. Lei disse di sì, accomiatandosi così con quell’assenso serenamente dalla vita. E così fu.

L’altro giorno le ho portato dei fiori freschi in cimitero, in sostituzione di quelli di plastica ormai polverosi e consunti. Ormai dei suoi parenti non c’è più nessuno e solo noi accudiamo la sua tomba.

Ci siamo come al solito guardati per qualche istante: il suo sguardo buono è rimasto anche nella foto della lapide. A farle compagnia i genitori e le due sorelline morte di febbre spagnola all’inizio del secolo scorso.

Mentre tornavo alla macchina ho pensato che sarebbe bello che, come in quel vecchio film, una persona non è davvero morta finché sulla terra resta ancora qualcuno a ricordarla.

All’uscita dal cancello del cimitero un refolo di vento fresco mi ha portato un profumo che era senza alcun dubbio di ossibuchi di dindio. Dio che buoni!




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Commenti

  1. Caro Roberto, mi hai fatto commuovere!

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  2. Commovente, la storia di tante donne come lei, preziose per la memoria di chi le ha conosciute

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  3. Che bel ricordo della zia

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  4. Roberto sei fantastico, sempre.

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  5. Se tua zia Rina potesse leggere questo racconto .... ti abbraccerebbe stretto stretto con lacrime di gioia! Una narrazione di vita, condizioni, fatti che tutti abbiamo conosciuti un pó ma dimenticati. Grazie per averli ricordati.

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  6. Mi hai fatto piangere.
    Bello!

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