Cursus Honorum
Cursus Honorum
Tutto sommato, la
prima elementare scorse via tranquillamente.
La maestra Frare
ci governava come una nidiata di conigli, rinchiusi nella nostra aula-stabbio,
ignari del nostro destino (cucinati alla cacciatora?), tirandoci su a paginate
di aste sbilenche e “o” minuscole col ricciolo in alto, da non confondere con le
“a”, che il ricciolo invece ce l’hanno in basso.
Solo la H
maiuscola corsiva era un cimento quasi insuperabile,
ma se, dopo infiniti tentativi, ce la facevi, poi eri a posto.
La maestra Frare
era una signora minuta, leggermente claudicante, con i capelli cotonati come si
usava in quegli anni ’60. Prossima alla pensione, pensava soprattutto ad
arrivare indenne alla fine della giornata e osservava quella voliera di bimbi
bercianti che avrebbe dovuto educare con un certo astio e molta rassegnazione.
Poiché faticava a
camminare, se ne stava tutto il tempo seduta in cattedra, tenendo sempre pronta
vicino a sé una lunga canna di bambù appoggiata minacciosamente al muro, di
fianco alla lavagna. Con essa era in grado di raggiungere e colpire anche i
ragazzi degli ultimi banchi, i ripetenti più turbolenti, e quando quel laser
artigianale entrava in azione, velocissimo e preciso, tutti infilavamo la testa
sotto i banchi, ma già sapevamo che non avevamo scampo. La Frare riusciva,
grazie alle sue rapide sciabolate, a colpire anche tre ragazzini alla volta:
uno per punizione e un paio per prevenzione.
Tuttavia, una
bacchettata della maestra Frare era una passeggiata di salute se confrontata
con le pratiche dell’asilo delle suore da cui provenivo, dove Suor Giovanna ti
metteva in castigo in ginocchio a pregare con un sasso in testa, e se facevi
cadere il sasso, nemmeno il buon Dio, che pur qualcosa doveva contare là
dentro, ti avrebbe potuto salvare. Comunque, ti poteva capitare anche di
peggio, come essere messo in piedi da solo davanti al gigantesco ventilatore del
riscaldamento della sala teatro davanti a tutti gli altri bambini e all’intero
corpo docente delle monache, che, mentre la macchina ti sputava addosso la sua
tempesta di aria calda e fetida con un ululato terribile, ti dicevano che il
diavolo in persona stava venendo a prenderti.
Sembrava che tutte
le suore dell’asilo avessero un conto aperto con la vita, perennemente
immusonite, acide e aggressive. L’unica simpatica era Suor Agnese, una vecchina
che doveva avere una quantità incredibile di anni, talmente ripiegata su stessa
da risultare più piccola di noi bambini.
Il suo compito era
quello di accompagnarci al bagno, tutti in fila e seguendo un protocollo
abbastanza lungo e complesso che non tutti i bimbi avevano la pazienza di
rispettare, con effetti facilmente immaginabili. Suor Agnese non si arrabbiava
mai: scuoteva la testa sorridendo e puliva, rimproverando bonariamente il reo.
Ricordo ancora con affetto la sua vocina flebile e l’odore dolce di urina
infantile che l’accompagnava.
L’ingresso in
seconda elementare fu un fatto epocale: il gioco si faceva duro. Ad attenderci
c’erano i maestri maschi, di cui si narravano cose terribili riguardo alla loro
severità, esigenza e sadismo.
Io fui abbastanza
fortunato: fui assegnato al maestro Timoteo Bellé. Non era il maestro D’Andrea,
considerato il più morbido, o perlomeno il meno duro di tutti, ma nemmeno il
terribile maestro Capoia, il cui solo nome metteva paura, di cui si
raccontavano cose terribili sulle sevizie che infliggeva ai suoi scolari.
Il Timoteo era
tutto sommato un brav’uomo: laureato in giurisprudenza, era finito a fare il
maestro elementare non si sa per quali motivi. Persona coltissima, era stato
anche sindaco del paese e svolgeva il suo lavoro ancora con passione ed
entusiasmo. Alto, un po’ stempiato, le basette risorgimentali grige, il profilo
affilato e il naso un po’ adunco, l’abito grigio con la cravatta scura sotto il
gilè azzurro, poteva considerarsi un bell’uomo. Con la sigaretta sempre in
bocca, a quei tempi, per i maschi fumare era simbolo di autorevolezza e di
virilità, spaziava con facilità dalla letteratura all’astronomia, dalla
matematica alla storia medievale, dalla fisica alle citazioni in latino.
Purtroppo, però,
la sigaretta girava sempre in coppia con un pesantissimo posacenere in vetro
pieno sfaccettato, ben piazzato sopra la cattedra. Nelle sue frequenti
sfuriate, il maestro lo afferrava e lo lanciava verso l’incauto giovine che
aveva scatenato la sua ira. Miracolosamente non beccò mai nessuno, ma la parete
in fondo all’aula portava i segni della rabbia magistrale, a memento di chi si
fosse azzardato a far inquietare il Timoteo.
Il posto della
lunga canna della maestra Frare era stato preso da una bacchetta corta e spessa
che si abbatteva a raffica sulle nostre schiene, ma i bersagli preferiti erano
due: la possente schiena di Gianni “Nasser”, e le gambe nodose di Toni “Morte”.
Destino volle che
il maestro e i suoi due più disperanti allievi portassero lo stesso cognome:
Bellé, e questo per me ha sempre voluto dire qualcosa, anche se non so cosa.
Erano questi due i
più discoli della classe. Gianni era un torello tozzo e massiccio, con una
schiena sulla quale avresti potuto caricare tutti i sacchi di cemento che
volevi: non se ne sarebbe neanche accorto. Il soprannome gli derivava, credo,
dall’allora presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser, noto per la sua
determinazione e durezza con gli avversari. Quando Gianni tentava, o fingeva, di studiare, fissava i libri con l’espressione
della mucca che guarda passare il treno: non ci capiva nulla e riteneva che non
valesse la pena di impegnarsi per una cosa stupida e inutile come lo studio. La
sua mente era fuori di lì, già nel mondo del lavoro, dove non vedeva l’ora di
transitare per poter finalmente darsi da fare e guadagnarsi da vivere.
Ogni tanto, all’ennesima
scena muta nelle interrogazioni, il Timoteo sbroccava, impugnava la sua
bacchetta e tempestava la schiena di Gianni che si arrotolava sé stesso come un
pangolino attendendo pazientemente la fine della grandinata.
Spesso il
temporale si concludeva con la rottura della bacchetta (la schiena di Gianni
era troppo dura anche per lei). A quel punto il maestro si ricomponeva e
rivolgeva uno sguardo d’intesa a Tato, il figlio del mobiliere: il giorno dopo
il ragazzino gli avrebbe portato una bacchetta nuova di zecca lavorata al
tornio dal padre.
D’altronde, negli
anni del boom economico e del fiorire delle piccole imprese e dei capannoni,
eravamo tutti figli di tute blu o di grisaglie, e la grande partita a scacchi
della divisione sociale della ricchezza si riversava sui nostri rapporti di classe,
anche se solo elementare.
Toni invece,
soprannominato “Morte” per l’aspetto magro, pallido e allampanato e per il
carattere taciturno, era un Lucignolo che viveva in un mondo tutto suo, in una
forma di autismo quieto che gli serviva da autodifesa da un mondo per lui
troppo complicato. Era molto più alto e molto più vecchio di noi, avendo
coscienziosamente ripetuto tutte le classi del percorso scolastico, ed era
quindi conosciuto, e un po’ temuto, da tutti i maestri della scuola.
Ricordo ancora
l’ossimoro dei suoi occhi di rettile mite, la sua voce grave di quasi uomo
nelle poche parole che proferiva. Era infatti un ragazzo sostanzialmente buono,
in quanto riteneva, lui pigro e indolente, troppo faticoso e difficile essere
cattivo.
Arrivava in classe
quando gli comodava e, sotto lo sguardo inviperito del maestro che lo avrebbe
volentieri incenerito, si accucciava a fianco della stufa a legna che
riscaldava l’aula. Estraeva dalla cartella un astuccio che conteneva dei
pastelli di cera: ne prendeva uno, lo spezzava in due e passava i due monconi
sulla superficie calda della stufa fino a farli sciogliere; dopodiché, una vota
sciolti, li riattaccava. Quando la cera si raffreddava rinsaldando le due parti,
lo spezzava di nuovo, e ripeteva l’operazione all’infinito. Non c’era verso di
interrogarlo, di vedere i suoi quaderni, di capire cosa pensasse del maestro,
della scuola, di noi tutti e della vita in generale, finché anche con lui il
Timoteo sclerava e partiva all’attacco verso la stufa, bacchetta in resta.
Ma Toni era
velocissimo: in un attimo recuperava le sue carabattole ed era in piedi,
montava sul banco più vicino e saltabeccando da un banco all’altro guadagnava
la porta d’uscita e spariva. A quel punto sapevamo che per almeno una settimana
non l’avremmo più visto, ma che presto o tardi sarebbe ritornato a riprendere
il suo paziente lavoro di saldatura dei pastelli.
Per quanto mi
riguardava invece, io ero un ragazzino abbastanza coscienzioso: mi piaceva
studiare, se non altro per curiosità, e non avevo mai assaggiato la bacchetta
magistrale. Solo qualche volta finii in castigo in ginocchio con qualche
compagno di chiacchiere, ma il maestro faceva l’errore di metterci davanti alla
grande carta geografica appesa al muro e quindi passavamo il tempo a cercare le
capitali di tutto il mondo, divertendoci un sacco.
Ma una volta il
nostro mentore decise di spiegarci il sistema solare. Prese un limone e
un’arancia e si inerpicò su un banco per avvicinarsi al lampadario. Qui, in un
equilibrio molto precario cominciò a far roteare la terra (l’arancia) attorno
al sole (il lampadario) e la luna (il limone) intorno all’arancia, prodigandosi
in difficilissime spiegazioni delle leggi della gravità. Era una operazione
complicatissima e anche pericolosa: Timoteo era al massimo della
concentrazione.
Affascinato da
quella operazione e volendo fare una domanda, cominciai a chiamare il maestro
con tono petulante e irritante, finché lui, esasperato, si girò e mi fissò
furente. Il ceffone arrivò improvviso e del tutto inaspettato. Io rimasi
pietrificato, mentre Timoteo si guardava la mano stupito, cose se fosse
appartenuta a un altro e avesse tirato lo schiaffo contro la sua volontà. Il
limone rotolò lontano.
Nessuno dei due
disse niente. Io mi ritirai in buon ordine senza più seguire la lezione, mentre
lui nascose il suo imbarazzo riprendendo con rinnovato vigore le sue evoluzioni
attorno al lampadario: capii, allora, che quello schiaffo era stato il
benvenuto per mio ingresso nella vita vera.
Oggi quella scuola
non esiste più. Lo stabile è stato ristrutturato e destinato ad altri usi
eppure, guardando bene, potrete ancora vedere l’ombra lunga e affilata di Toni
che, saltando da un banco all’altro, fugge via, lontano, a caccia di grilli.
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Vedo che ricordi ancora bene le elementari, Roberto! Ahimè ricordo davvero poco dei miei primi due anni di scuola. Comunque ben ricostruito il clima delle elementari dei primi anni sessanta!
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