Fuori dal coro
Fuori
dal coro
Don Enrico piombò come un
fulmine nell’aula della nostra seconda media senza bussare, interrompendo la
lezione di storia. Salutò frettolosamente l’insegnante di lettere e ci scrutò
con i suoi piccoli occhi grigi di rettile.
Don Enrico era un giovane
pretino minuto tutto nervi, la tonaca una taglia più grande, i capelli alla reparto
d’élite militare, la voce roca e stridula, registrata su un perenne falsetto.
Per lui il dialogo, il confronto, o anche i semplici convenevoli della normale cortesia
tra persone erano solo una perdita di tempo: era un uomo del fare scelto
dall’Altissimo per dare una regolata a tutti i cristiani della terra, o almeno
a quelli della sua parrocchia.
Senza scusarsi con l’anziano
professore di lettere né tanto meno chiedere il permesso, cominciò a
indottrinarci.
La faccenda era questa.
Si stava avvicinando la
Santa Pasqua e per la messa solenne di quel giorno don Enrico stava allestendo
un grande coro che sarebbe stato composto da uomini adulti che avrebbero fatto
i tenori, i baritoni e i bassi e da bambini per le voci di contralto e soprano.
Il perché da questo magnifico progetto fossero escluse le donne non era dato
sapere.
Comunque sia, don Enrico
si era impegnato in una febbrile attività di scouting per selezionare i bambini
con le voci più belle e più intonati.
Ci ordinò quindi, senza
tanti fronzoli, di intonare una canzoncina scelta da lui e mentre noi,
abbastanza terrorizzati, cantavano come meglio potevamo (quali orrendi castighi
aveva previsto il don per i bimbi stonati?), lui si aggirava tra noi
avvicinando l’orecchio alle nostre bocche.
Ascoltava con le ciglia
aggrottate e la bocca serrata in una smorfia di concentrazione, dopodiché
scuoteva la testa e, lanciando uno sguardo di delusione, commiserazione
e biasimo al malcapitato, passava a un altro ragazzino.
Quando si avvicinò a me
cominciai a sudare freddo: pensai che se non avessi cantato bene mi sarei
guadagnato le fiamme dell’Inferno o almeno una dura rappresaglia durante le
attività parrocchiali.
Don Enrico avvicinò
l’orecchio alla mia bocca mentre io cercavo disperatamente di trasformarmi in
sirena, o almeno in usignolo. Chiuse gli occhi, si portò la mano alle labbra in
un gesto assorto per un tempo che mi sembrò interminabile e finalmente sentenziò:
- Sì!, aprendosi in un
largo sorriso.
La stessa cosa si ripeté
per altri tre ragazzini e alla fine, con la voce e il tono di Don Vito Corleone
ne “Il Padrino” che non ammetteva repliche sibilò:
- Domani sera alle otto voi quattro in canonica
per le prove!”
e se ne andò senza dire
altro.
Ero frastornato, cercai
di rivolgere l’attenzione alla lezione di storia che il professore aveva faticosamente
ripreso bofonchiando, ma la mia mente era altrove.
Ero certamente contento
per lo scampato pericolo (niente Inferno per questa volta …) e lusingato per
essere stato scelto: cantare nel coro degli adulti, e per di più nella Messa
solenne della Pasqua davanti a tutto il paese sarebbe stata una cosa bellissima:
i miei genitori sarebbero stati fieri di me e io avrei potuto un domani
raccontarlo ai miei figli.
Ma la sfida era impegnativa:
ne sarei stato all’altezza?
Informai della cosa i
miei genitori intascando le loro congratulazioni e il loro incoraggiamento e la
sera dopo inforcai la mia vecchia bicicletta e mi presentai puntuale alle otto
meno un quarto in canonica, pieno di timore e di speranza.
Io e gli altri bambini
selezionati eravamo spaesati e impauriti ma don Enrico con i suoi modi bruschi
ci intruppò rapidamente tra gli scranni del coro e la nostra avventura ebbe
inizio.
Per tutto l’inverno, tre
sere a settimana, con qualsiasi tempo partivo con la mia bicicletta verso il
mio destino. La canonica era gelida ed era difficile con quel freddo tenere la
voce calda e intonata, ma lo sguardo di don Enrico era il miglior incentivo per
non stonare. Naturalmente noi bambini dovevamo subire il bullismo dei cantori
adulti, fatto di battute e scherzi di cattivo gusto e abbozzare alla loro risate.
Col tempo la mia voce si
fece sempre più sicura e intonata, il freddo non lo sentivo quasi più come non
sentivo le battute offensive dei grandi. Ero sempre più fiero di appartenere a
quel meraviglioso gruppo e mi eccitavo e commuovevo quando sentivo i nostri
canti sacri innalzarsi solenni tra i muri della canonica.
Guardavo con una certa
commiserazione i miei compagni esclusi dal coro e mi facevo bello con amici e
parenti. Mi sentivo un piccolo Mario Del Monaco ed ero contento di essere stato
selezionato come contralto, voce meno da femminuccia del soprano: a quei tempi
nei piccoli paesi il machismo era la regola.
Si avvicinava la
primavera e il gran giorno. Il freddo stava finendo e prendere la bicicletta la
sera non era più un sacrificio. Io ero ormai sicuro dei miei mezzi e aspettavo
trepidamente l’occasione in cui avrei potuto dimostrarli al mondo intero.
La notte prima di Pasqua
non chiusi occhio. Provavo i canti sottovoce: ricordavo tutto, parole, note,
pause e intonazioni.
La mattina mia mamma mi
lavò, mi pettinò e mi vestì col mio miglior abito, le scarpe lucidissime. Feci
gli ultimi gorgheggi e mi avviai felice verso la chiesa, a piedi per non
rovinare il vestito.
Entrai in canonica un po’
sorpreso che nessuno mi chiedesse l’autografo e mi recai nel coro dietro
l’altare dove già molti cantori erano arrivati. Gli uomini sfoggiavano le loro
migliori cravatte e gli abiti dei loro ormai lontani matrimoni e i bambini …
Già, i bambini. Avevano tutti indossato la tunica da chierichetto e
improvvisamente mi resi conto che io ero l’unico cantorino che non faceva il
chierichetto e quindi non avevo la tunica d’ordinanza.
Sgomento, mi appoggiai a
una colonna: che fare? La disperazione mi stava attanagliando. Riordinai le
idee, mi feci coraggio e mi avvicinai a don Alfeo, l’altro prete della
parrocchia.
Don Alfeo era un uomo
alto, magro e segaligno, insaccato in una tonaca che sembrava stare in piedi da
sola e con il tricorno sbilenco sulla testa
, con gli occhi rivolti al cielo in una perenne trans mistica. Chiamava tutti i
bambini “angioletto” con quella sua vocina flebile e inquietante.
Prendendo un forte
respiro dissi tutto d’un fiato:
- Scusi, don Alfeo, sono
Roberto e dovrei cantare oggi nel coro, ma non ho la tunica: potrebbe per favore
prestarmene una?”.
Per qualche secondo don
Alfeo non sembrò distogliersi dalla sua adorazione del Signore, poi finalmente
si scosse e mi chiese di ripetere, anche se era evidente che aveva capito
perfettamente.
Mi guardò pensoso,
rivolse di nuovo gli occhi verso il cielo in attesa della parola di Dio e alla
fine, con la sua voce eterea ma ferma mi rispose:
- No, angioletto. Mettiti
nei primi banchi a canta con devozione.
Lo fissai incredulo: non
poteva avere detto questo. Dopo mesi di prove e di impegno, di freddo, di
sgridate e scappellotti di don Enrico e di canzonature dei grandi ero stato in
un attimo sbattuto fuori dal coro perché non avevo la tunica da chierichetto,
di cui gli armadi della canonica erano pieni. Mi sentii perso e le lacrime
cominciarono a scorrere sul mio volto.
Ovviamente non mi misi
tra i primi banchi a cantare con devozione ma uscii dalla chiesa, affranto e
distrutto.
Da quel giorno iniziò la
mia personale guerra col il mondo cattoclericale. Cominciai a disertare messe,
vespri e catechismi e a nascondermi dietro muretti e colonne ogni volta che
intravedevo una tonaca, sempre col timore che uno dei due preti si presentasse
dai miei genitori a chiedere conto della mia latitanza. La mia infanzia
proseguì nascosta come un ricercato di camorra finché un giorno mi fermai incuriosito
davanti alla casa del demonio dalla quale noi bambini ci eravamo sempre tenuti
alla larga con timore, per non dire paura: la sede del Partito Comunista
locale. Mi guardai attorno assicurandomi che nessuno mi vedesse e, furtivo, mi
avvicinai all’ingresso canticchiando sottovoce, intonatissimo, “Bandiera Rossa”.
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Gustosissimo racconto! I due "don" in questione hanno mai saputo di essere stati la causa del tuo traviamento a sinistra?
RispondiEliminaNon credo. In ogni caso avrebbero sicuramente etichettato la cosa come opera del demonio.
EliminaIl diavolo usa spesso travestirsi per allontanarci dalla retta via, non si perita nemmeno di vestire la tonaca e il tricorno da prete... Bel racconto Roberto, molto divertente
RispondiEliminaMi dispiace x la delusione del bambino che, però, poi sicuramente avrà sviluppato un forte senso critico e ironia. La base x saper scrivere così bene.
RispondiEliminaPer quanto riguarda i preti e la chiesa di quegli anni ce ne sarebbe da raccontare...
Complimenti
Quanta sofferenza e quale delusione ti hanno procurato i due preti! Un'ingiustizia.
RispondiEliminamolto ironico, come sai essere tu!!
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